Spesso parlo con gli amici ed è
una bella attività, fine a se stessa. Mi rilassa.
Quasi tutti i miei amici sono morti, non ho intenzione di iniziare un romanzo
alla Camus sulla centralità dello straniero nella vita psichica contemporanea, i
miei amici sono quasi tutti morti ma continuano a vivere nella materia dei loro
scritti.
Per esempio: come puoi non essere amico di Rimbaud
da lui ci ricavi sempre una conversazione fra l’astrale e il concreto, puoi bighellonare
in un bar sui ghiacciai, ascoltando una melodia moderna mentre i ghiacciai si sciolgono,
puoi suonare lo zufolo di Pan a Piccadilly Circus, con le tue desert boots scucite, sbrindellate di chi ha molto nel deserto del
cemento camminato .
Con Rimbaud in un bistrot di Paris puoi arruffare il pelo della barba,
afferrando nell’aria un calembour di
sciamanesimo mongolo, mescolato a qualche
verso di Villon, puoi intercettare una vocale AH, nera
come un mosca, che cala sul golfo
d’ombra di un seno prosperoso, con lui puoi
violare con il temperino poetico la nauseante leggiadria di una colomba,
appartandoti poi, come un Franti bambino, dietro la gonna della
maestrina dalla penna rossa per piangere voluttuosamente il tuo pentimento e
quanti muliebri odori esplodendo violenti arrazzano la tua folle eversione di poeta di sette anni.
Con Rimbaud castigheremmo il catechismo. E il dio bigotto lo schiacceremmo sotto
il piede come uno scarafaggio, avendo nell’anima ben altro adolescente fuggire
che il restarsene a casa e chiesa all’ombra dell’ordine sacro e del suo
esercito di zombie.
Con Rimbaud si camminerebbe molto
mettendo ali al cavallo dell’erranza, per vedere il ciclone nel cuore della
calma, come quando il tumulto è soffocato e la clessidra ruota la catastrofe e
ci rivela che lo specchio è il custode del nostro svanire perpetuo. Perciò essere
altro sole al risveglio eracliteo della rugiada e sapere infine che altro detto
satanico irrita la pupilla mitorealista: la bellezza sarà confusa o non sarà.