martedì 31 marzo 2020

Amici del limbo




Spesso parlo con gli amici ed è una bella attività,  fine a se stessa.  Mi rilassa.  Quasi tutti i miei amici sono morti, non ho intenzione di iniziare un romanzo alla Camus sulla centralità dello straniero nella vita psichica contemporanea, i miei amici sono quasi tutti morti ma continuano a vivere nella materia dei loro scritti.
  
Per esempio: come puoi non essere amico di Rimbaud da lui ci ricavi sempre una conversazione fra l’astrale e il concreto, puoi bighellonare in un bar sui ghiacciai, ascoltando una melodia moderna mentre i ghiacciai si sciolgono, puoi suonare lo zufolo di Pan a Piccadilly Circus, con le tue desert  boots  scucite,  sbrindellate di chi ha molto nel deserto del cemento  camminato .
  
 Con Rimbaud in un bistrot di Paris puoi arruffare il pelo della barba, afferrando nell’aria un calembour di sciamanesimo mongolo,  mescolato a qualche verso di Villon, puoi intercettare una vocale AH,   nera come un mosca, che cala sul  golfo d’ombra di un seno prosperoso, con lui  puoi violare con il temperino poetico la nauseante leggiadria di una colomba, appartandoti poi,  come un  Franti bambino, dietro la gonna della maestrina dalla penna rossa per piangere voluttuosamente il tuo pentimento e quanti muliebri odori esplodendo violenti  arrazzano  la tua folle eversione di poeta di sette anni. Con Rimbaud castigheremmo il catechismo. E il dio bigotto lo schiacceremmo sotto il piede come uno scarafaggio, avendo nell’anima ben altro adolescente fuggire che il restarsene a casa e chiesa all’ombra dell’ordine sacro e del suo esercito di zombie.

Con Rimbaud si camminerebbe molto mettendo ali al cavallo dell’erranza, per vedere il ciclone nel cuore della calma, come quando il tumulto è soffocato e la clessidra ruota la catastrofe e ci rivela che lo specchio è il custode del nostro svanire perpetuo. Perciò essere altro sole al risveglio eracliteo della rugiada e sapere infine che altro detto satanico irrita la pupilla mitorealista: la bellezza sarà confusa o non sarà.

venerdì 27 marzo 2020

The Great Bluff of the Machine



Quando si diventa un fiume carsico si attraversa il tempo come se questo fosse smisurato, prima o poi si erompe in superficie, il fiume lo sa, dopo aver dissetato l’oceano,  la miriade e l’invisibile, il tempo fluisce enormemente nella stessa musica perpetua;   prendiamo per esempio un Rimbaud, un Rimbaud nato da donna  è un nonnulla rispetto al Rimbaud della Visione che sotterranea ci coglie all’apice del nostro  sguardo perso,  quando diventiamo lo sguardo stesso che oltrepassa se stesso e si guarda;  mentre  il pensiero che si pensa,  vuoto come una moria di stelle, agisce sul reale,  reinventandolo.

 E non sapendo dirvi le fonti vi lascio alla sete che questo deserto ci impartisce. E non sapendo altra acqua che l’umidore modesto di un filo dell’erba, rasoterra il mio pensiero diserta Dio e il suo Lassù, accogliendo le minuzie della terra,  umida come lo sfondo tragico della tragica risata che  agita il fantoccio umano, cioè me stesso, piccola caricatura della mia stessa sparizione in segno grafico, in scrittura.
  
Io è il punto di fusione fra il nulla e la sua eco che suona tremenda e infinita come il  Tutto, derisoria manifestazione di un dio ignoto a stesso che sempre ripete  la sua melodia infinita al nostro orecchio di smarriti e  cosi’ facendo ci sfinisce.

martedì 24 marzo 2020

Metodologia del silenzio





Il Tutto custodisce la sua infinita vanità come la più dannosa delle scoperte; è il momento in cui né Essere, né Dio, né Verità, né Infinito, né Tempo, possono più risuonare nella potenza di rivelazioni, ma si accorgono di essere solo parole, con cui la mente trastulla il suo niente.

Il silenzio allora è l’essenza di una parola che si spegne e il deserto cresce fino a racchiudere l’intero universo nella sua caduta di folgore. Anche parole come Caos, Cosmo, Fato servono solo ad alimentare il macchinario dell’insensato in cui la solitudine scolpisce il nostro volto e indossiamo la maschera del Vuoto.

Nessuna parola può più venirci in soccorso, nessun senso anzi, tutto è trappola, come mettere il vento nella clessidra e numerare la lontananza fra noi e il Tempo. In questa Bouville senza pioggia suona la condanna definitiva e la parola abbandona il suo trono da pezzente e doppiamente miserabile si trascina in cerca di un’elemosina di bellezza che sa non arriverà. E l’inferno è compiuto come dimensione eternamente priva di luce certo, ma anche di buio, come il non luogo di un’assenza originaria. E l’inferno detta la sua legge proverbiale: “Tutto è vano! Anche questo sapere che ti strangola! Tutto è vanità, un perseguitare il vento, un sigillare il vuoto".

 Così fra vento e vuoto l’area semantica è un sentiero che reca in sé il segno e il sogno come la sua trascendente malinconia. Essere fuori dall’istante ma eternamente. Essere una statua scolpita da una parola che non sa mutare e non sa morire! Che cosa dice il vento di colui che può comunicare solo la propria dissolvenza? Silenzio, tu mi abiti come la parola più potente e in questa potenza mi dissolvo. Il tacere delle nuvole m’impietra. La parola stessa cade in un pozzo senza fondo ed io ne divento l’eco. Non è diverso essere Dio, temo.

domenica 22 marzo 2020

Un augurio mitorealista




Eppure colpisco il silenzio con un maglio filosofico, qualche scintilla per generare di verità segreta, così segreta da essere ignota alla coscienza, scolpita nell’anima. Essere brevi è la magia dei poeti ma poeti e maghi sono imbroglioni entrambi, la verità ha bisogno di lunghi discorsi, farò  dunque una mediazione fra la concisione e la densità di pensiero, seguitemi, se ne avete voglia.

Da esteta potrei sintetizzare tutto in una boutade detta bevendo un tè verde in questo deserto a precipizio sul dolore umano perché so che anche la sofferenza si giustifica come fenomeno estetico e che l’impalcatura morale del mondo si è spezzata lasciando tutti orfani di Dio, quindi liberi, liberati anche dal libero arbitrio, nell’infelice terra degli irresponsabili che solo attraverso il dolore possono riconoscere questa orfanità come la base del loro vaneggiare.

La libertà, ricorda C.B, è un grande deserto. Ora il deserto,   dopo lunga, millenaria  degenza in platonica e plutonica caverna, si è manifestato a se stesso, si è svelato in questa pandemia d’ignoto che sta facendo saltare il banco. Il mio augurio è che tutti noi, esteti o nemici dell’estetica, poeti o nemici della poesia,  ci riveliamo degni di questo deserto. E ora? Che accade? Quanta pazzia, quanto  inferno ci  sono voluti per arrivare a dire “Io Sono libero”?

Mi auguro che questo deserto ricordi -  almeno a coloro che sanno parlare al proprio orecchio anche in pieno mercato-  di essere da-per sempre anche il bosco interiore in cui rifugiarsi quando gli ignobili dilagano in città con la pestilenza emotiva  della loro essenza di schiavi nati. Manteniamo la lucidità. amici.

Monologo di un poeta - lamentazione mitorealista





Sono semplicemente stanco di fissare vertigini, intrappolare attese, mescolare nascite e addii, esplorare il fondo  delle parole per cantarne il silenzio profondo, inattingibile e non umano. 

Sono  stanco di essere e di non essere, di silenziare il linguaggio con l’esito di una parola enigmatica, sono stanco di manifestare l’evanescenza che eternamente m’inchioda a un’incomprensione perenne. 

Esito sulla soglia del Tempio, dove Dio è l’ eterna acqua dove annega il transitorio Tempo, dove Dio è lallazione e balbo parlare di una Sfinge che non trova Edipo e allora la Peste trionfa e il suo enigma sibila nella caverna dove il risveglio non è ammesso dalla legge plutonica vigente, e dunque trovo che l’alba sia lontana in questo buio senza stelle né cielo ma  improvvisamente so che  il mattino verrà soltanto  per cancellare meglio la tenebra di cui consiste la nostra aleatoria sostanza.

 Non so commentare la morte, né dare alla vita un linguaggio pieno di senso, non so illuminare il vento né svuotare il vuoto dei resti di un Dio che m’implora di esistere, non so cantare a perdifiato la lode che ci libera da questa opprimente tristezza, non so annichilire il lamento eterno della caducità, non so tracciare il sentiero che conduce la poesia  a vagare perdutamente in cerca di una notte in cui far cadere la propria luce incorrotta, non so danzare fino a risvegliare la stella del Mattino, giacché nessuno specchio può riflettere Dio o la sua assenza, non so afferrare le stelle e gettarle sulla terra, non so innalzare fino all’inno questa lamentazione funebre, non so che indossare il silenzio ahimè,  come la maschera definitiva,  affinché il vuoto acquisti un volto e nella terra senza destino io possa essere finalmente Nessuno, come tutti, felicemente recluso nella Chiacchiera,  il cui nome è Mente, whose the name is Mind.