Devo sferzare il silenzio, sgridarlo,
esso sa troppe cose, perché me le nasconde? Sa persino che ciò che mi ricongiunge
al destino originario è una fiaccola che non si spegne, un arabesco di felicità
primordiale, animale, vegetale, acquatica prima che il respiro imparasse a dire
io, quando la fiamma della fame non si chiamava ancora mamma e l’oceano dell’impossibile
mutava colore in ogni onda del possibile e il santuario del nome pulsava in
ogni breccia e in ogni voragine della voce di colui che lo pronunciava.
L’infante: colui che non regge il
peso del mondo ma vive l’epifania
aurorale del sentirsi e del vivere e del patire.
Ora come fuscelli, piegati da un
vento che vuole spezzarci, opponiamo all’annichilimento la magnificenza di
quell’attimo senza tempo, nel pensiero dell’origine la forza di non cadere
spezzati. Questa forza non possiamo che chiamarla Speranza, e tacere ciò che
cinicamente la spezza o superiormente la acceca o vilmente ne fa lo straccio
con cui pulire la propria ipocrisia e maligna incoscienza.
Speranza non nel futuro ma nella
forza presente che mantiene gli atomi uniti e riempie il cielo del suo azzurro
e fa vorticare la terra invariabilmente intorno al suo sole. Ripongo la mia speranza nel silenzio che sa
che la parola sboccia per guarire il mondo e assecondo questo vento, dove anche
il cielo s’inchina all’immenso e il mare è una goccia di pianto che purifica il
suolo terrestre. Ti saluto e ti benedico
forza cosmica guaritrice. Sii la benvenuta in questa terra orfana di te.
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