domenica 22 marzo 2020

Monologo di un poeta - lamentazione mitorealista





Sono semplicemente stanco di fissare vertigini, intrappolare attese, mescolare nascite e addii, esplorare il fondo  delle parole per cantarne il silenzio profondo, inattingibile e non umano. 

Sono  stanco di essere e di non essere, di silenziare il linguaggio con l’esito di una parola enigmatica, sono stanco di manifestare l’evanescenza che eternamente m’inchioda a un’incomprensione perenne. 

Esito sulla soglia del Tempio, dove Dio è l’ eterna acqua dove annega il transitorio Tempo, dove Dio è lallazione e balbo parlare di una Sfinge che non trova Edipo e allora la Peste trionfa e il suo enigma sibila nella caverna dove il risveglio non è ammesso dalla legge plutonica vigente, e dunque trovo che l’alba sia lontana in questo buio senza stelle né cielo ma  improvvisamente so che  il mattino verrà soltanto  per cancellare meglio la tenebra di cui consiste la nostra aleatoria sostanza.

 Non so commentare la morte, né dare alla vita un linguaggio pieno di senso, non so illuminare il vento né svuotare il vuoto dei resti di un Dio che m’implora di esistere, non so cantare a perdifiato la lode che ci libera da questa opprimente tristezza, non so annichilire il lamento eterno della caducità, non so tracciare il sentiero che conduce la poesia  a vagare perdutamente in cerca di una notte in cui far cadere la propria luce incorrotta, non so danzare fino a risvegliare la stella del Mattino, giacché nessuno specchio può riflettere Dio o la sua assenza, non so afferrare le stelle e gettarle sulla terra, non so innalzare fino all’inno questa lamentazione funebre, non so che indossare il silenzio ahimè,  come la maschera definitiva,  affinché il vuoto acquisti un volto e nella terra senza destino io possa essere finalmente Nessuno, come tutti, felicemente recluso nella Chiacchiera,  il cui nome è Mente, whose the name is Mind.

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