Il Tutto custodisce la sua infinita
vanità come la più dannosa delle scoperte; è il momento in cui né Essere, né Dio,
né Verità, né Infinito, né Tempo, possono più risuonare nella potenza di
rivelazioni, ma si accorgono di essere solo parole, con cui la mente trastulla
il suo niente.
Il silenzio allora è l’essenza di
una parola che si spegne e il deserto cresce fino a racchiudere l’intero universo
nella sua caduta di folgore. Anche parole come Caos, Cosmo, Fato servono solo
ad alimentare il macchinario dell’insensato in cui la solitudine scolpisce il
nostro volto e indossiamo la maschera del Vuoto.
Nessuna parola può più venirci in
soccorso, nessun senso anzi, tutto è trappola, come mettere il vento nella
clessidra e numerare la lontananza fra noi e il Tempo. In questa Bouville senza
pioggia suona la condanna definitiva e la parola abbandona il suo trono da
pezzente e doppiamente miserabile si trascina in cerca di un’elemosina di
bellezza che sa non arriverà. E l’inferno è compiuto come dimensione
eternamente priva di luce certo, ma anche di buio, come il non luogo di un’assenza
originaria. E l’inferno detta la sua legge proverbiale: “Tutto è vano! Anche questo
sapere che ti strangola! Tutto è vanità, un perseguitare il vento, un sigillare
il vuoto".
Così fra vento e vuoto l’area semantica è un
sentiero che reca in sé il segno e il sogno come la sua trascendente
malinconia. Essere fuori dall’istante ma eternamente. Essere una statua
scolpita da una parola che non sa mutare e non sa morire! Che cosa dice il
vento di colui che può comunicare solo la propria dissolvenza? Silenzio, tu
mi abiti come la parola più potente e in questa potenza mi dissolvo. Il tacere
delle nuvole m’impietra. La parola stessa cade in un pozzo senza fondo ed io ne
divento l’eco. Non è diverso essere Dio, temo.
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